"Per fare scelte pubbliche ci vogliono metodi pubblici e democratici"

Parliamo dell'iniziativa "Chiedi le Prove" con il presidente del CICAP, il Prof. Sergio Della Sala.

"Per fare scelte pubbliche ci vogliono metodi pubblici e democratici"

Abbiamo incontrato Sergio Della Sala, Professor of Human Cognitive Neuroscience all'Università di Edimburgo e presidente del CICAP, a ridosso dell'ultimo fine settimana della XIII edizione del Corso del CICAP per indagatori di misteri, conclusosi da poco a Torino. A margine di una sua appassionante conferenza sul tema delle false memorie e delle leggende relative alla mente, gli abbiamo rivolto alcune domande sull’iniziativa “Chiedi le Prove”, di cui è uno dei promotori. Vi riportiamo l’interessante ed informale chiacchierata che ha avuto luogo.

 

Perché non un semplice “Chiedi all'esperto”?

Perché non siamo più ai tempi di Aristotele in cui c'era un'autorità che imponeva la conoscenza. La nostra iniziativa non raccoglie solo fatti ma ci introduce ad un metodo. L'idea che esistano dei fatti completamente indipendenti dall'opinione è abbastanza semplicistica; analogamente, l'idea che esistano delle evidenze o delle prove che valgono per tutti potrebbe anch'essa essere fallace. Quello che è evidenza per te, potrebbe non esserlo per me e viceversa. Quindi, non un semplice “Chiedi all'esperto” perché il progetto è aprire un dialogo su che cosa una società democratica deve costruire e richiedere per prendere delle decisioni a “bocce ferme” e non reagendo agli eventi. Non un parere personale di un esperto ma un metodo con cui una società democratica raccoglie le informazioni che le permettono di decidere. Bisogna sempre considerare che la Scienza non è prescrittiva. La Scienza descrive una realtà. Non c'è l'esperto che prescrive una “ricetta” ma c'è una società che raccoglie descrizioni della realtà.

 

Quindi è fondamentale il coinvolgimento delle persone in quest’ottica di “sapere condiviso”...

Si. Non tanto perché tutti devono sapere tutto. Non è un tentativo di far finta che basti un quarto d'ora di “smanettamento” su Internet per diventare esperti di qualche cosa. Ancora una  volta, è la condivisione di un metodo che si basa su tre valori: il valore dei fatti, il valore della trasparenza ed il valore della responsabilità. Chiunque fa un'affermazione, deve dire su quali fatti questa stessa affermazione si basa; deve farlo in modo trasparente, per far si che le fonti di questa affermazione siano accessibili e deve farlo in modo responsabile, cioè quando fa un'affermazione deve gestirne le conseguenze.

 

Qual è, secondo te, il "meccanismo" che fa di un semplice ascoltatore un asker?

Piano piano ci rendiamo conto che la nostra società ha bisogno di trasparenza nelle scelte che vengono fatte. Questa trasparenza non richiede che tutti riconoscano le stesse evidenze, gli stessi fatti e gli stessi valori, ma piuttosto deriva dalla possibilità di poter giustificare le affermazioni che vengono fatte: ognuno deve poter validare le fonti con le quali un'affermazione è giustificata.

La vita e la società non possono diventare un talk show televisivo dove ognuno spara a casaccio numeri senza nessun tipo di azione di verifica. Le persone non aderiscono all'iniziativa con l'intento di imporre la propria ideologia ma perché prendono il coraggio di chiedere "Scusi, è interessante quello che dice: come fa a dirlo?" oppure "E’ interessante quello che mi vende: funziona?". Ottenuta una risposta, poi, l'asker decide se va bene o meno. L'assunto è che è ora di finirla con l'esperto, vero o presunto che sia, che dice cosa si deve fare. L'esperto deve essere riconosciuto come tale; se poi come esperto una persona sceglie il guru che insegna il corso di meditazione ed un’altra l'oncologo che cura sua madre, sono scelte individuali, libere.

 

Se dovessi interfacciarti con l'iniziativa come una persona interessata a “capire”, cosa ti aspetteresti?

È difficile per me rispondere perché ho partecipato sia alla costituzione della versione inglese di “Ask for Evidence” sia a quella italiana di “Chiedi le Prove”. Posso però immaginare che alcuni potrebbero aspettarsi il posto dove si sa la verità (plausibile ma irraggiungibile) oppure potrebbero aspettarsi di trovare una rete di comunicazione in cui a seguito di affermazioni,  una persona fa la domanda “Come fai a dire quello che stai dicendo?”, non per poter dire “Io lo so meglio” oppure  “Quell'altro lo sa” ma semplicemente per poter capire. Poi, si può accettare o meno la risposta ma non è un’operazione di fact checking, non c'è una verità da qualche parte che va cercata e noi andiamo a cercarla, impugnandola contro qualcun altro. Non è così. È un’operazione di totale democrazia per insegnare a noi stessi ad agire in trasparenza.

 

Quindi, si può dire, che è anche dotare le persone di una “cassetta degli attrezzi” di natura mentale, autonoma, per riuscire a interpretare la realtà che le circonda e farsi una serie di domande...

Più che altro è dotare le persone della consapevolezza che la loro esperienza, quello che loro credono, i loro pregiudizi, non sono forme sufficienti per vagliare le scelte pubbliche. Sono sufficienti probabilmente per fare scelte individuali su cui nessuno deve sindacare. Ma per fare scelte pubbliche ci vogliono metodi pubblici e democratici, non metodi basati sulla propria esperienza. A questo serve l’iniziativa: a rivedere l'assetto mentale, per cui non è più una mia opinione o quello che penso a dettar legge, ma esiste un metodo che insieme ci diamo per fare le scelte che riteniamo migliori. Se c'è qualcuno che propone una nuova terapia o un nuovo sistema scolastico, noi avremo già il sistema che ci permette di verificare se va bene o non va bene, un sistema scelto insieme. Fallace, imperfetto, ma scelto in termini democratici. Lo scopo è quello di costruire uno strumentario metodologico, non per sapere tutto ma per dare il coraggio alle persone di fare le domande.

 

Tenuto conto  che la mente umana opera in modo da costruirsi degli schemi per far fronte a “buchi conoscitivi", com’è possibile arrivare a una conoscenza condivisa? L'iniziativa non si contrappone al modus operandiche è proprio della nostra mente?

No, credo anzi che l’iniziativa sia in assoluta sintonia con i meccanismi coi quali si dovrebbe operare. Abbiamo vissuto per decenni con l’ipse dixit, ovvero l’esperto; poi si è passati alla fase in cui tutti sanno tutto. In entrambi i casi c’è qualcosa che non funziona. Bisogna passare ad un modello in cui ovviamente ci sono gli esperti, riconosciuti come tali, che dicono delle cose e contestualmente c’è una società che chiede ragione delle affermazioni. Parliamo per lo più di affermazioni mediche e scientifiche, anche se è possibile addivenire a una forma identica di domande di tipo “politico”. Si badi: questa operazione non è un fact checking. Ripeto: un fatto è quasi dipendente da un’opinione e persone diverse possono vedere fatti diversi e considerare evidenze diverse. E’, invece, un’operazione di trasparenza: un’affermazione deve essere suffragata dalle fonti per poter essere fatta.

 

Come nasce l’idea di portare l’iniziativa inglese in un contesto italiano?

“Chiedi le Prove” nasce in Italia sull’onda di “Ask for Evidence”, un’iniziativa inglese, promossa da Sense About Science, un gruppo molto simile al CICAP. È nata come un desiderio di far partecipare le persone alle campagne, piccole e grandi, richiedendo le prove.

La genesi del nome non è stata semplice.“Evidence” è una parola che si traduce malissimo in italiano. Inoltre il termine “Ask” è diretto e non se ne capisce il tu, il voi o il lei (in italiano diventa più ambiguo a seconda di come lo si traduce). “Chiedi le Prove” è una buona versione e per quanto riguarda la campagna è possibile che non sarà esattamente la stessa campagna. L’iniziativa in Inghilterra adesso è diventata virale, ha raccolto tantissimi fondi pubblici e la si ritrova  sia in piccole comunità, per rettificare affermazioni fatte da persone che dovrebbero pensare prima di parlare, sia come forma di consulenza per importanti  scelte governative. È diventata abbastanza potente, tant’è vero che si è staccata da Sense About Science per diventare una campagna in proprio con personale dedicato. Non so se noi avremo mai la capacità politica, finanziaria, di personale, di volontariato per farla diventare così grande; inoltre  operiamo in una realtà diversa, ma certamente è una iniziativa divertente, interessante e toglie quell’ambiguità per cui le persone devono imparare le cose. Io non voglio imparare e sapere tutto, voglio però avere il diritto di chiedere.